Sposati o gay?

ottobre 2, 2007

Mi chiedevo ieri sera, durante la prima eclatante puntata di "Exit", dedicata ai preti gay ripresi con una telecamera nascosta, se fosse meglio un sacerdote sposato oppure un omo-sacerdote . Se il primo fa discutere, suscita polemiche e sdegno, viene perfino cacciato e scomunicato, il secondo deve essere protetto, in nome della libertà sessuale, della privacy, della tolleranza. Nella trasmissione radiofonica di Gianluca Nicoletti (Melog), si è accennato anche al fatto che è molto tranquillizzante per gli omosessuali mettersi insieme ai preti gay , per gli stessi identici motivi di cui parlavo nel mio post precedente a proposito delle donne che si affidano fiduciose e sognanti al loro parroco…non so dare risposte, mi limito a sottolineare la differenza di trattamento e finalmente credo di capire che cosa intendesse il prete intervistato da Paola Perego quando ha accennato al fatto che al momento di prendere i voti gli avevano fatto capire qualcosa che non ha detto e che la conduttrice non è stata abbastanza svelta a tirargli fuori. Amen

17 Risposte to “Sposati o gay?”

  1. Sonia said

    secondo me se i preti provassero la vita matrimoniale come accade ad es. ai valdesi potrebbero fare prediche più realistiche e dare consigli più saggi. Circa i gay non saprei, ma mi sa che i conventi sono pieni.

  2. Giulia said

    Tante volte penso chela gente parla a nome di chi non conoscee di cui non sa nulla… E così è facile prendere decisioni in cui sono coinvolti gli altri. Giulia

  3. dario said

    Paola Perego? Intende forse dire Ilaria D’Amico?
    Non ho visto la trasmissione tuttavia mi sembra di poter dire che 1) le persone che “condannano” i preti sposati difficilmente sono le stesse che “assolvono” i preti gay
    2) la 7 è una tv di nicchia notoriamente attenta al pubblico gay
    dario

  4. gianna said

    Si Dario, Paola Perego , che domenica scorsa ha ospitato il prete che ha pubblicamente dichiarato di amare una ragazza madre e di essere felice e contento e, come tu dici, anche Ilaria D’Amico che nella sua prima puntata di Exit ha parlato dei preti gay: evidententemente due argomenti e un unico soggetto che sono – come si dice oggi – molto trend. Una trasmissione come “Buona Domenica” e di nicchia (non troppo per me) come quella de “La 7” fanno un bel pubblico. In quanto alla diversificazione del pulpito, sono d’accordo con lei. Grazie, ciao, Gianna

  5. dario said

    Grazie a te, Gianna. Ho recuperato il post relativo a “Buona domenica” e visto quello che il sito di la7 metteva a disposizione della prima puntata di Exit. Così credo di avere capito il senso senso “internista” della tua riflessione e il tuo riferimento all'”occasione persa” di Paola Perego. Una forma di lobbismo confessionale?
    Mmmh. Amen,
    dario

  6. Cara volpacchiotta,
    questo argomento mi interessa molto e mi fa piacere che tu lo abbia affrontato.
    Io credo che, sia necessario, innanzitutto, a scanso di equivoci, affermare con chiarezza che qualsiasi critica o giudizio non deve mai trascendere i limiti della correttezza. Inoltre credo sia necessario saper adottare sempre un metro di giudizio rispettoso anche dell’umana debolezza e imperfezione.
    Ma, detto ciò e senza in alcun modo voler criminalizzare alcuno, credo
    anche che l’ottica che si adotta nel valutare le questioni che riguardano la sessualità dei sacerdoti (e la loro eventuale gaytudine), sia gravemente errata. Tra tante cose soggettive e discutibili che si dicono, si finisce per tacere proprio quella più oggettiva, importante e ovvia: ossia che farsi prete è una libera scelta. Una scelta consapevole e volontaria il cui contenuto, attualmente, include in modo chiaro ed esplicito la rinuncia al sesso. Sia esso etero oppure omosessuale.
    E’ bello inneggiare alla libertà e al diritto di amare; è bello opporsi al destino cinico e baro che si prende gioco assai spesso di noi poveri umani.
    Ma … la loro libertà i futuri sacerdoti ce l’hanno ed è piena: consiste nel fare una precisa scelta al momento di indossare l’abito talare. Dopo di ciò hanno ancora piena libertà: possono in qualsiasi momento rinunciare ai voti. Tutto il resto non è libertà: è desiderio di fare le scelte che ci piacciono senza voler accettare la responsabilità di averle fatte. E’ non avere la dignità di confrontarsi con se stessi e di saper accettare le rinuncie. E’ vivere curvi, con la spina dorsale che non sta dritta nemmeno coi puntelli.

    A questo vorrei aggiungere che la sessualità di un preta NON è un fatto privato. Infatti il rispetto di precise regole fa parte integrante del corpus di una dottrina che i sacerdoti sono chiamati (per loro scelta) non solo a vivere, ma addirittura a insegnare e, rispetto alla quale, essi dovrebbero essere totalmente trasparenti e privi di segreti di fronte a chicchessia; infatti essi sono chiamati a costituire, con il loro comportamento, anche nella sfera sessuale, una guida e un esempio di coerenza nel rispetto degli ideali cattolici per il popolo dei fedeli.
    Sostenere che la sessualità di un prete sia un fatto privato equivale a dire che la competenza in storia di un professore di storia è solo un fatto privato.
    Un bacione,
    Giorgio.

  7. gianna said

    Si chiede troppo all’essere umano,a cui lo stesso creatore ha dato anche vita sessuale e sociale. Il problema è a monte, secondo me: ci sarebbero molti più bravi padri di famiglia, più cristiani ed educatori di cui fidarsi, meno ipocriti e cattivi maestri, se i preti potessero sposarsi e avere una vita sessuale come tutti: come mariti (ai quali anche la chiesa chiede il cosiddetto dovere coniugale, la cui negazione era motivo di sciolglimento per la sacra rota) e come omo-preti (come correttamente tu li definisci) che rientrando nella categoria protetta dalla privacy e dal diritto all’amore libero è più rispettato e tollerato. In parole povere, va bene ozsservare le regole, ma le regole, secondo me, sono sbagliate.La castità non è un’imposizione di Dio ma un’invenzione della chiesa.
    Grazie di avermi permesso la discussione, ciao Gianna

  8. Fabio said

    E’ vero c’è una discriminazione di trattamento come è vero che in un essere umano può convivere l’esigenza di far parte attivamente della Chiesa senza rinunciare ad una vita familiare: io credo che la Chiesa si sia sempre opposta al matrimonio dei preti non solo per ragioni evangeliche, ma soprattutto perchè, nel momento in cui si concedesse loro di sposarsi, si porrebbe il problema economico di retribuirli in modo adeguato a consentire il mantenimento della famiglia. Il prete gay non crea invece, all’istituzione ecclesiastica, problemi di questo genere. A presto, Fabio

  9. gianna said

    A questo aspetto non avevo pensato,ma la chiesa ha abbastanza da investire e il suo gregge con tutto quel che ne conseguirebbe, aumenterebbe notevolmente di numero e di finanziamenti. Grazie Fabio

  10. Dunque, cara fanciulla, noto che (anche nel mio blog) la discussione tende motu proprio a spostarsi da:
    “è giusto che si abbia una biologicamente normale vita sessuale/affettiva/familiare pur a prezzo del mancato rispetto dei vincoli sacerdotali?”
    a:
    “è giusto che i vincoli sacerdotali impongano la rinuncia a una biologicamente normale vita sessuale/affettiva/familiare?”.
    Torno a sottolineare che si tratta di due problemi ben distinti e indipendenti.

    Nel seguito, per brevità, mi riferirò al primo problema chiamandolo “Questione 1” e al secondo con l’espressione “Questione 2”.
    Inoltre userò l’acronimo SAF al posto di “vita sessuale, affettiva e familiare biologicamente normale”.

    QUESTIONE 1
    A questo riguardo ho poco da aggiungere.
    Constato che ci si aspetta ben poco dagli esseri umani in termini di buon senso e di capacità di fare delle scelte sensate, se non si dà per scontato che, prima di abbracciare la vita sacerdotale (o monastica), chiunque sia tenuto a valutare molto attentamente sia tutte le condizioni cui dovrà sottostare, sia la propria capacità di accettarle e rispettarle.

    Per altro la categoria concettuale di “regola giusta” (o sbagliata) non può essere applicata alla dottrina della Chiesa. Esattamente come non può essere applicata al corpus dottrinale di qualsiasi altra religione per il semplice motivo che le religioni, in genere, fondano la loro dottrina sull’asserzione esplicita che essa corrisponde alla volontà di Dio.
    E’ evidente che, di fronte alla volontà di Dio, nessun convincimento umano ha più alcun valore, a meno che, semplicemente, non si dubiti in partenza del fatto stesso che quella religione sia divinamente ispirata.
    Mi pare si tratti di una questione quasi matematica in cui c’è poco da discutere: la Chiesa Cattolica afferma, attraverso le parole di coloro che soli hanno facoltà di parlare, di fare delle scelte ispirate alla volontà di Dio di cui il Papa costituisce addirittura il vicario in Terra. Se non si crede a questa asserzione si torna a casa e si rinuncia al cattolicesimo, se ci si crede, viceversa, non può esistere spazio per alcuna forma di interpretazione personale. Non ha nessun senso credere che la Chiesa e il Papa siano emanazioni di Dio e poi pretendere di dire “ma io la penso diversamente”. Nessuno può ragionevolmente pretendere di pensarla diversamente da Dio.
    D’altro canto, se, per esempio, si crede alla dottrina cattolica solo per una parte, allora deve trattarsi di una parte dottrinariamente del tutto irrilevante. Altrimenti, per definizione, si è automaticamente fuori dalla Chiesa Cattolica. Pertanto non si può dire “io credo nella Chiesa, ma non nel fatto che il Papa sia, per volontà di Dio, il vicario di Dio stesso”. Non si può dire “io sono cattolico, ma credo che i preti debbano sposarsi”. E’ una questione di rigore logico. Se si crede che i preti debbano sposarsi, automaticamente non si è cattolici. Le parole le possiamo stiracchiare fin quando vogliamo, ma la serietà della discussione a un certo punto si dissolve nella ingestibile arbitrarietà dei significati e dei protocolli di comunicazione.
    Dunque torno a ripetere: chi è convinto che il Papa non abbia l’autorità e il mandato, originati da Dio stesso, per guidare la Chiesa definendone le linee dottrinarie, ivi inclusa la preclusione del matrimonio e della vita sessuale, semplicemente non è cattolico. Può essere cristiano, ma non cattolico. Si fa la sua religione per conto suo o aderisce a una delle innumerevoli sette già esistenti e si mette l’anima in pace (ehm … si fa per dire).
    Voglio però aggiungere che, quando ci si fa preti, di tutto ciò si è ben al corrente. Nessuno ci chiede di diventare sacerdoti senza dirci che dovremo restare casti e che dovremo accettare la volontà del Papa e il corpus dottrinario consolidato attualmente professato dai cattolici. Quando decidiamo di farci preti abbiamo il tempo, il diritto e il dovere di informarci, discutere, confrontarci con altri preti e fare una scelta precisa. Anzi, abbiamo pure il modo, durante gli anni di seminario, di fare una prova pratica prima dell’ordinazione. Che razza di esseri siamo, se, con tutto ciò, non siamo capaci di fare una scelta precisa e convinta? Che razza di esseri siamo se non sentiamo il peso, non solo dell’impegno che ci andiamo ad assumere, ma della responsabilità che ci prendiamo nei confronti dei fedeli (per i quali dovremo essere noi la guida che li condurrà lungo il sentiero della fede cattolica)?
    E, se pure ci fossimo sbagliati, cosa ci impedisce, al momento in cui ce ne accorgiamo, di fare un gesto di coerenza e di rispetto verso il popolo dei fedeli, rinunciando ai voti? Forse si potrebbe malignamente pensare che in molti casi non ci sia alcun vero problema di dottrina, ma solo il desiderio di far convivere le nostre esigenze biologiche con i vantaggi che ci offre l’abito talare?
    Nessuno chiede ai preti di rinunciare alla loro vita biologica, cara volpacchiotta; sono i preti che liberamente scelgono di farne a meno, salvo poi sotto, sotto, cercare la strada più comoda.

    QUESTIONE 2
    Può darsi benissimo, cari Fabio e Gianna, che le motivazioni per cui la Chiesa si oppone ai matrimoni di sacerdoti siano piuttosto concrete e magari meno nobili di quanto la Chiesa stessa sostiene.
    Può darsi. Sono solo interpretazioni e ipotesi, ma non è detto a priori che siano sbagliate.
    Può anche essere che la Chiesa stessa commetta uno sbaglio a voler impedire la SAF.
    Questo però è un argomento assai più difficile e sfuggente rispetto alla Questione 1.
    Difficile anche perchè, per poter dire se la Chiesa sbaglia, bisognerebbe prima aver chiare le idee su cosa sia “bene” e cosa sia “male”, dal punto di vista ecclesiastico (e non dal nostro). Bisognerebbe saper valutare l’impatto delle possibili scelte alternative anche in prospettiva, rispetto alle future esigenze e ai problemi che si potrebbero verificare da qui a cent’anni o a duecento.
    Non si deve infatti dimenticare che la Chiesa non può permettersi di cambiare e rimangiarsi le sue opinioni, seguendo liberamente il flusso delle mode e delle culture, come si cambiano i calzini. Non fosse altro perchè si presume che la sua dottrina venga da Dio il quale dovrebbe ben avere la capacità di non contraddirsi e prevedere anche il futuro in modo ragionevolmente attendibile.
    La questione dunque, può rivelarsi assai più delicata di quanto a noi appaia.
    Tu fai notare, cara Gianna, che la castità non è una imposizione di Dio, ma una invenzione della Chiesa. Vero. Tanto che essa in passato non era richiesta. Però è altrettanto vero che, pur trattandosi di una scelta umana, essa potrebbe avere una sua utilità e suo un preciso valore. Questo punto di vista è non poco avvalorato dalla constatazione di come questa scelta venga fatta in moltissimi culti e religioni e non solo in quella cattolica.
    Anzi, in quasi tutte le maggiori religioni, la sessualità è ammessa (e talora onorata) solo fintanto che sia connessa al matrimonio. E’ questo il caso dell’hinduismo, dell’ebraismo, dell’islamismo, ecc.. In altri casi si guarda alla vita sessuale con aperto sospetto, come avviene per esempio nel buddhismo e nel jainismo.
    Occorre poi ricordare che, anche in quelle religioni che accettano il matrimonio e la sessualità, la figura del monaco o della persona dedita alla vita spirituale è frequentemente casta.
    Pure nel cristianesimo il rifiuto della sessualità è nato ben prima che il consolidarsi della struttura ecclesiastica e il graduale convergere verso forme sempre più moderne, piramidali e organizzate portasse a forme impositive.
    Di fatto tra i primi cristiani la rinuncia alla SAF era assai frequente e costituiva una libera scelta finalizzata ad avvicinarsi a Dio.
    D’altro canto non si deve dimenticare che le pratiche sessuali sono strettamente legate ai culti satanici e che, in moltissime fedi, laddove esista un Dio, esso è immaginato come entità aliena dalle esigenze della carne.
    In qualche modo, dunque, in moltissime religioni, in tutte le epoche e in tutte le culture l’uomo ha sentito la rinuncia alla SAF come un mezzo d’elezione per il perfezionamento della propria identità spirituale.
    Piuttosto occorre chiarire la posizione della Chiesa cattolica venga vista del tutto impropriamente come una “imposizione”.
    E’ questa visione distorta che, secondo me, è all’origine di molti dubbi. Ma qui ci si ricollega poi alla Questione 1: per una persona che abbia una vita spirituale così intensa e sviluppata da desiderare di lasciare ogni altra cosa e seguire Gesù (ossia farsi prete), tutte le eventuali rinunce (ivi compresa quella alla SAF) non dovrebbero costituire la conseguenza di una imposizione, non una limitazione della loro libertà individuale, ma piuttosto, al contrario, il frutto che nasce proprio da quella libertà. Un fatto di coerenza e fedeltà rispetto a un cammino personale che si concretizza in una norma interiore. Il tentativo, insomma, di dare compimento al massimo livello possibile, alle proprie esigenze spirituali.
    E, ove così non sia, siamo di fronte a ben miseri preti.
    Un bacione a Gianna,
    Giorgio.

  11. gianna said

    Caro Cosmic, ho preso un giorno di ferie per leggere la tua interessante esposizione. Non ho nulla da dire davanti a tanta conoscenza e a tante certezze, ma non mi hai convinto. Perchè un prete che si accorge di avere desideri umani e naturali come quelli di amare e sposare una donna, deve ritirarsi dalla Chiesa? Non potrebbe essere ugualmente un grande prete con una vita naturale? Non pensi che sia proprio questa negazione a provocare le cose più ignobili negli anfratti delle sagrestie? Mi dirai che la sporcizia è ovunque, ma proprio per tutto quello che hai qui elencato,le loro trasgressioni da pervertiti sono intollerabili. Eppure molti di questi, responsabili di creare sbandati per la vita, restano al loro posto, con tutta la comprensione possibile. Alla mia ultima confessione, un prete mi chiese letteralmente dove mettevo le mani durante la notte. Avevo 11 anni, ero una collegiale. Ho dimenticato tutto della mia infanzia e della mia adolescenza, episodi come questo no. Da allora ho evitato i confessionali, le chiese,i preti e le monache,superando, per fortuna, questo ed altro.Non ne faccio un caso personale, credimi, tanto che mi auguro tempi migliori anche per loro, ma per ottenerli, occorre cambiare anche quelle regole che li metta alla pari con noi e faciliti loro la vita.
    Mi preme anche dire la mia sul punto in cui sei più inflessibile “…prima di abbracciare la vita sacerdotale (o monastica), chiunque sia tenuto a valutare molto attentamente sia tutte le condizioni cui dovrà sottostare, sia la propria capacità di accettarle e rispettarle”. Non sai che nella vita si cambia? Io non sono la stessa di 10 anni fa e neppure di ieri. Anche un prete che ha giurato il voto di castità può accorgersi di non farcela ad osservarlo, non per questo deve rinunciare alla sua missione (quando è sincera).
    G.

  12. Ivan said

    Io credo che un prete debba sposarsi. Se vuole parlare di famiglia ed essere credibile deve prima averla. Se vuole parlare di amore deve provarlo non solo verso Dio, ma verso una persona.

  13. gianna said

    parole sante Ivan, grazie, Gianna

  14. Vedi, figliola, Dio non esiste soltanto per i cristiani. Un Dio ce l’hanno pure gli anglicani e i luterani. Ce l’hanno gli ebrei e gli indiani cree, pawnee e assiniboine. E poi c’è tanta gente che ha un suo proprio Dio che non è nè Siva, nè Allah, nè Manito.
    Il cattolicesimo è la religione di coloro che accettano il credo niceno-costantinopolitano e riconoscono nel Papa il vicario di Dio in Terra.
    I cattolici credono che Dio, mandando suo figlio Gesù, abbia voluto dare inizio a un nuovo periodo storico nel quale viene realizzato il Regno di Dio e che quest’ultimo coincida con la Chiesa.
    I cattolici credono e accettano che il potere di rimettere (o meno)i peccati sia stato delegato da Dio ai suoi rappresentanti in Terra: gli apostoli, dei quali Pietro era il capo e la guida. E credono che la rappresentanza di Dio venga trasmessa di generazione in generazione, partendo dagli apostoli, attraverso i vescovi e partendo da Pietro ai doversi Papi che si sono succeduti.
    Credere in tutto questo (e altro ancora) significa essere cattolici.
    Non crederci, inserire dei distinguo, formulare delle riserve, ritagliarsi pezzi di dottrina che non ci piacciono significa appartenere al ceppo delle religioni monoteiste di origine cristiana, ma aver lasciato il cattolicesimo.
    Se così non fosse, perchè mai i protestanti non dovrebbero essere pure loro dei cattolici?
    In fondo le varie dottrine protestanti differiscono da quella cattolica soltanto in pochi dettagli non decisivi e le differenze dottrinarie sono abbastanza marginali. Eppure i protestanti costituiscono Chiese distinte e separate.

    Ma tutto questo non è un fatto clamoroso e non mi pare neppure particolarmente interessante.
    Facciamo un esempio pratico. Diciamo che tu e io, domani, fondiamo un’associazione che ha 3 regole fondamentali:
    1 – per essere soci è necessario che al venerdì si indossi un cappellino giallo;
    2 – per essere soci è necessario essere amanti dei Pleurotus ostreatus (il fungo che viene comunemente chiamato “gelone” o “pleos” o …)
    3 – per essere soci è necessario alzarsi in piedi e gridare a squarciagola “mamma” ogni singola volta che vediamo qualcuno bere un caffè …

    Dato che sei una ragazza dall’intelligenza brillante, immagino che non sia necessario che io prosegua, vero?

    Dunque la risposta alle tue domande: “Perchè un prete che […] deve ritirarsi dalla Chiesa? Non potrebbe essere un grande prete anche con una vita naturale?” deve necessariamente essere no per ambedue i quesiti.
    Uno che voglia una vita naturale può benissimo essere un cristiano convinto, una persona adorabile, un benefattore dell’umanità e uno che dedica la sua vita al prossimo. Ma non un prete cattolico, per definizione di prete cattolico.

    Per quanto riguarda poi il fatto che nella vita si cambi … beh, certo, ahimè … io vent’anni fa ero snello come un acciugo e ora peso quasi 100Kg!
    Anche i preti possono cambiare idea.
    E allora, dici tu, perchè mai pur cambiando idea solo su un aspetto marginale debbono rinunciare alla loro missione?
    Ma qui, c’è un “problema di comprensione del problema”.
    Quale è la “missione” di un prete? E’ non sposarsi? E’ dire la messa almeno una volta al giorno? E’ vestirsi con l’abito talare?
    La “missione” di un sacerdote è una sola, dolce volpacchiotta: fare la volontà di Dio. Tutto il resto sono questioni senza importanza.
    Fare la volontà di Dio è un fine che viene prima di qualsiasi altro, giacchè qualsiasi altro è definito in funzione di esso.
    Dunque essere un sacerdote non è la missione fondamentale di nessuno. Anzi, non è proprio una missione. E’ soltanto la strada che si è ritenuta più adatta al nostro profilo umano e spirituale al fine di perseguire l’unico vero scopo: fare la volontà di Dio. E, se ci accorgiamo che quella strada per noi è troppo ripida, abbiamo il dovere di cambiarla in modo da fare salvo il fine. Non ha alcuna importanza se cambiarla significa lasciare il sacerdozio. Perchè il sacerdozio non è un fine, ma un “modo”.
    Anzi, immedesimiamoci per un attimo nei problemi e nelle difficoltà di uno che, essendo un cattolico fervente ed essendosi fatto (con convinzione) prete, si accorge di non saper resistere ai richiami della carne. Egli può cedere e scoparsi la perpetua tutti i giorni cercando di non farlo sapere oppure può scegliere una via diversa per seguire il Signore.
    Se decide di scoparsi la perpetua egli compromette seriamente e in molti modi il fine di “fare la volontà di Dio”; diventa un potenziale cattivo esempio per altri sacerdoti e una fonte di scandalo per i fedeli (e per la perpetua!!!!), vive nella menzogna, rischia di screditare l’immagine della Chiesa e, inoltre, manca agli impegni che si è assunto.
    Se rinuncia ai voti, viceversa, potrà comunque essere un ottimo credente e persino un santo evitando tutte le possibili ricadute negative su di se e sugli altri fedeli. Se lo vorrà potrà comunque dedicare la sua vita al servizio degli altri, partire per l’Africa, operare come volontario presso la parrocchia o andandosene in Nepal, … Perchè mai, dunque, un buon cattolico sincero dovrebbe accettare di peccare vivendo nella menzogna, quando in nessun modo la rinuncia al sacerdozio compromette il fine unico della sua vita (fare la volontà di Dio)?

    In fondo, cara volpacchiotta, non riesco proprio a capire perchè tanta resistenza ad accettare tutto ciò. Credo che il problema vero, “figliola”, è che tu ragioni da laica e non da sacerdote cattolico. Conseguentemente cerchi di far rientrare il bene e il male, il giusto e l’ingiusto nella griglia di valori in cui tu, in quanto laica, credi.
    Ma non possiamo pretendere di applicare a un religioso i nostri propri schemi mentali di laici. Un religioso deve (deve) ragionare da religioso. Altrimenti egli è solo un laico che ha fatto una scelta sbagliata o di comodo.

    Una persona che voglia diventare prete (cattolico) dovrebbe essere uno che ha conosciuto (bene) i valori del cattolicesimo e sente nell’anima un afflato, un desiderio, un’esigenza urgente e irrinunciabile di dedicare la sua vita alla realizzazione di QUEI valori. Tutto ciò ancor prima di essere un prete.
    Un sacerdote cattolico dovrebbe CREDERE FINO IN FONDO, sinceramente e spontaneamente, che i valori del cattolicesimo vengono da Dio. E, una volta credutolo, dovrebbe porsi il problema di quale strada seguire per meglio fare ogni singolo giorno la volontà di QUEL Dio. Di come servirlo meglio, di come più efficacemente sacrificare questi giorni terreni e transitori dedicandoli interamente alla sequela di Cristo.

    Una persona che abbia dentro questa forza spirituale poi ha ancora davanti a sè più opzioni: essere un buon cristiano pur vivendo il suo cristianesimo in qualità di semplice fedele, diventare un sacerdote, aderire a uno degli ordini monastici o, infine, dedicare la sua vita interamente agli altri pur senza pronunciare i voti.
    Qualunque sia la sua scelta deve sempre rimanere fermo e saldo il presupposto di base: sentire nell’animo la sincera e vincolante esigenza di vivere il cattolicesimo fino in fondo. Con TUTTO ciò che questo comporta.

    Ora, a me pare che proprio qui stia il vero problema: nel fatto che di VERI cattolici, in giro ce ne sono proprio pochini. E non perchè, in quanto esseri umani, noi sentiamo delle necessità fisiologiche che dobbiamo soddisfare, ma piuttosto perchè, con il diffondersi della cultura, con il mutare della società, con le nuove possibilità che la tecnologia offre e con la grande ricchezza di cui è pieno il nostro mondo, abbiamo sviluppato un senso critico sin troppo pervasivo che ci porta a voler dire la nostra, non solo sul matrimonio dei preti, ma SEMPRE e COMUNQUE.

    Noi vogliamo poter dire l’ultima parola su qualsiasi scelta e non ci accontentiamo di sapere che un certo insegnamento “viene da Dio”. Vogliamo mettere in discussione la posizione della Chiesa nella vita civile, la dottrina del matrimonio, le questioni legate alla procreazione, la ricchezza dei preti, ecc. e pretendiamo di essere noi a decidere se un Papa è un cretino oppure un santo. Se e quando un Papa pronuncia mezza parola sulla continenza si scatenano polemiche roventi; se poi in qualche modo viene anche solo pensata la parola “gay”, allora viene giù il mondo; se, per sbaglio, il Papa accenna ad avvicinarsi agli ebrei, i filopalestinesi si arrabbiano, se prova a prendere le distanze dall’ebraismo viene travolto dalle proteste di chi paventa un ritorno del nazismo, ecc…

    Questo nostro modo di vivere e pensare, figlio di una maggiore informazione, cultura e consapevolezza, è però anche la radice vera dei problemi della Chiesa. Noi non accettiamo più che ci si dica “è giusto perchè lo vuole Dio” e non ci sta più bene neppure che ci siano altri che lo pensano.
    Di fronte alle regole di un’associazione autonoma e libera di persone che consapevolmente e spontaneamente scelgono di seguire certe regole, noi pretendiamo di sindacare quelle regole. Anche se non ci riguardano. E pretendiamo pure di decidere se è giusto o meno che ALTRI debbano sottostarvi. Persino quando essi hanno scelto ciò liberamente.
    Quando la Chiesa ha rifiutato la sepoltura cattolica di Welby, un coro di proteste si è levato da parte di persone che nessun titolo avevano per giudicare il comportamento della Chiesa. Eppure, quest’ultima nulla aveva fatto, se non applicare in modo coerente e serio quelle regole che ogni buon cattolico dovrebbe aver conosciuto e pienamente accettato come condizione indispensabile per il potersi dire cattolico.

    Purtroppo, in parte, questa pretesa di interferenza nelle regole interne di un gruppo indipendente come la Chiesa è, viene giustificata in virtù della confusione che si genera per il fatto che essa non è totalmente indipendente rispetto all’organizzazione dello Stato e della vita laica. Infatti la Chiesa usufruisce di un Concordato che costituisce un ponte sin troppo ampio tra l’universo della fede e quello della vita civile.
    Ogni volta che la Chiesa rivendica la sua autonomia e il suo (sacrosanto) diritto a indirizzare i fedeli (anche in questioni attinenti alla vita civile), essa si pone nella scomoda posizione di colei che con una mano regge la dichiarazione di indipendenza, mentre allunga l’altra per chiedere denaro.

    Ma a questo punto mi accorgo che ho scritto sin troppo e non vorrei appallarti eccessivamente. Anzi, mi scuso per aver monopolizzato lo spazio nel tuo blog. Temo di essere un pessimo amico: pignolo, logorroico e sempre schierato al contrario di tutti gli altri … non capisco come tu faccia a sopportarmi.

    Un bacione,
    Giorgio.

  15. gianna said

    beh Cosmic, se per il tuo precedente commento ho dovuto consumare un giorno di ferie, per leggerti e capire tutto questo devo prendermi tutto agosto 2008 e forse anche quello del 2009. Ragionerò punto su punto, riga dopo riga, grazie per l’attenzione.

  16. fausto marinetti said

    intervengo con qs lettera che ho scritto per mons. Fisichella.
    24.7.2007
    Caro Mons. Fisichella,
    Le chiedo lo sforzo di non dare per scontato che ogni critica è una “AGGRESSIONE”. Non tutti riescono a battervi le mani, sempre e comunque, come certi “giornali di corte” e certi movimenti educati al servilismo e all’adulazione. A volte, quelli che riteniamo “i nostri nemici” sono assetati di giustizia e ci dicono la verità più degli ossequienti. “Salutem ex inimicis nostris”?
    Lei mi invita a nozze: “Vorrei capire quali elementi possiede per affermare che nelle nostre strutture si fornisce ai seminaristi una cultura sessuofobica!”.
    Ha ragione: non possiedo “elementi” teorici, nozioni astratte, “sentito dire” e quant’altro, ma l’esperienza sulla mia pelle, voragini nella mia psiche: sono stato in seminario dal 1953 al 1968. Quindi, produco fatti, esperienze, comportamenti, situazioni, insegnamenti. Porto in me le stigmate di quella cultura: l’incapacità di “accogliere” il mondo femminile “come altro da me”; l’ideologia del sacrificio (come se Dio fosse un contabile); “fare il bene” agli altri per sentirsi buoni; la vita è una “valle di lacrime”; ecc.
    Entro in seminario nel 1953, anno in cui i religiosi, riuniti in congresso internazionale, discutono sulla “funzione educativa del pallone nei seminari”, non un cenno all’educazione sessuale. Altri tempi, nei quali l’unica presenza femminile ammessa in seminario è la Vergine Maria. Segregazione assoluta, per quattro anni non torno in famiglia. A un undicenne non resta che votarsi a una beata incoscienza, tra gioco, studio e abbondanti pratiche di pietà. Il termine più “familiare”: peccato! Onnipresente, più di Dio. Le virtù per eccellenza: obbedienza cieca, rinnegare se stessi, mortificazione dei sensi. Altro che fuga mundi, cancellazione del mondo! Si esalta la santa purità, inculcandoci che il corpo è occasione di peccato. Ogni fine mese il direttore fa il “rendiconto” delle nostre malefatte: bere fuori pasto, andare al gabinetto senza permesso (sfuggendo al controllo), troppa passione per il gioco, troppa amicizia sospetta, ecc. La colpa meritevole dell’inferno: l’amicizia particolare. Non capisco, ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. I colpevoli vengono svergognati: “Mele marce, traditori della vocazione, peggio di Giuda”. Un dubbio: un ragazzino della mia età come può avere tanta forza da colpire il Cristo in persona? Per prevenire il contagio, l’isolamento del colpevole è immediato, l’espulsione celebrata come una cacciata dal paradiso.
    Un giorno sparisce anche il sacerdote-assistente, che “dovevamo” chiamare “padre”. Ogni sera, ispezionando la camerata, con gesto fulmineo ci strappa di dosso le lenzuola per verificare che cosa succede sotto di esse. Poi arriva l’ordine di dormire con le braccia sopra le coperte. Prediche e conferenze insistono ossessivamente sulla “bella virtù”. Per essa preghiamo forsennatamente. Dall’alto della pala dell’altare una “donna vestita di luce” è la nostra donna ideale: incorporea, asessuata, un fantasma. Ogni sera, con la nostalgia, una domanda: “Ma la mia mamma dove è andata a finire?”. Al suo posto il direttore spirituale, un vecchietto di 70 anni, buono come il pane, ma incompetente per aiutarci a gestire l’insorgere delle prime pulsioni. Ogni mattina, al suo confessionale, una fila di clienti-bambini per saldare, con un Dio-giustiziere, il conto di una notte inquieta. Il buon padre non sa dire altro che: “Prega, prega! Con la preghiera tutto va a posto”. Mi sembra di non essere preso sul serio. Ma, sotto l’imperversare della minaccia dei castighi divini per il delitto di masturbazione, comincio ad avere paura del mio corpo: “Dio me lo avrà dato per punirmi? Cosa gli ho fatto di male?”.
    Gli zelanti sono quelli che fanno la doccia più in fretta, non indugiano nei gabinetti, spiano i compagni che si appartano e li denunciano. Ci viene insegnato, che la purezza consiste nel fingere di non avere un corpo, ignorare la sua crescita, finalità, movimenti. Non sono in grado di capire, ma, con il tempo, mi renderò conto che questo clima produce turbe e danni psicologici irreparabili. Sul conto di chi saranno messi? Chi si preoccuperà di ripararli? Io non so cosa sia lo stupro del corpo, ma quello dell’anima sì.
    A forza di parlare di “peccato impuro” non si ingenera la sua ossessione? Educazione sessuale? Nel paradiso terrestre del seminario il sesso non deve esistere e, se esiste, è solo in confessionale per chiedere perdono a Dio di averci dato un corpo, che sarebbe meglio non avere. I seminaristi più sfrontati osano bisbigliare: “E’ vero che i bambini nascono dal petto delle donne?”.
    Il bambino e la donna sono presenze così insignificanti (o pericolose?) per una formazione umana integrale? Potrà mai Dio vergognarsi di quello che ha fatto? Se un ragazzo fa indigestione di spiritualità disincarnata, come si fa a farne un cristiano senza prima farne un uomo? Può essere condannato ad una specie di anoressia del cuore? A furia di “fare” il cristiano, abbiamo perso di vista l’uomo o abbiamo preteso di fare il cristiano alle spese dell’uomo? Se per 15-20 anni un giovane è tagliato fuori dal suo habitat naturale, la famiglia, è come una pianta coltivata in serra. Appena la si espone è soggetta a tutte le intemperie. Se un uomo passa dalla cassaforte del seminario a quella della canonica; se gli si impone una cintura di castità con il terrore dell’inferno e l’ossessione del peccato mortale, potrà mai venirne fuori un uomo capace di condividere la sorte dei fratelli, che pur si dibattono con la “lussuria degli occhi, della carne, del mondo”? Può il seminario sostituire la famiglia? O forse solo una comunità di padri e madri di famiglia sarebbe in grado di educare dei giovani candidati al ministero, come avveniva all’inizio del cristianesimo ?
    Ci imbottiscono di vite di santi, che non hanno fatto altro che castigare il loro corpo con digiuni e cilici. Ignoranza, paura, sacro terrore faranno il resto. Un collega mi confiderà: “A furia di parlare contro il sesso mi hanno talmente condizionato, che, quando vedevo stesi al sole degli indumenti intimi femminili, li rubavo e li indossavo per eccitarmi. Eppure m’hanno convinto che quelle “cose” erano sfoghi di gioventù e m’hanno fatto prete lo stesso. Giro da una diocesi all’altra fin che trovo un vescovo, il quale mi manda dal suo medico di fiducia, che mi prescrive un farmaco. Il farmacista, mio conoscente, mi chiede: “Per chi è?”. “Per me”. “Sai che serve per la sterilizzazione chimica?”.
    Cose d’altri tempi? Ho degli amici appena usciti dal seminario e mi confermano che sono cambiate le forme, è rimasta intatta la sostanza. Si dice: “I seminaristi d’oggi la sanno lunga, hanno già fatto le loro esperienze!”. Ma se sono esperienze negative, come potrà il candidato fare una scelta serena? A 25/30 anni uno può decidere per tutto il resto della sua vita, quando non sa niente di “crisi di paternità”, di complementarietà uomo/donna, non ha ancora sentito nella sua carne i morsi della solitudine, non ha fatto esperienza dell’esigenza di perpetuarsi come specie? Come fa a rinunciare a ciò che non conosce, a ciò che è stato sublimato, inculcandogli che “il prete rinuncia ad un amore per amare tutti”? E poi, quando si ritrova in parrocchia, solo, la sera, s’avvede che “amare tutti con cuore indiviso”, può essere una scusa per non amare nessuno? Se uno viene abituato fin da piccolo ad amare nell’intenzione, a fare atti di amore spirituale, non sarà un alienato per sempre? O l’amore è concreto, come quello della mamma, che è pane e latte, bacio e carezza, o che amore sarà mai? In seminario non c’è, tutt’oggi, la presunzione di far scalare ai neofiti la cima della “santa purità” senza fornire loro l’attrezzatura indispensabile per le alte quote? Che cosa può fare un prete che sui 40-50 anni s’accorge di non essere in grado di portare il “giogo” della castità? Se il prete giovane decide di lasciare non può sposarsi in chiesa, non può insegnare religione, deve allontanarsi dalla parrocchia, ecc. Diritti umani, valore supremo della persona? Forse il Cristo direbbe alla sua Chiesa che è stata lei a tradire l’uomo-prete? Dove sono i preti che denunciano i loro superiori di violenza psicologica, di intimidazione spirituale ed economica? “Se non stai alle nostre regole ti tagliamo i viveri…”. Allora uno che fa? Si arrangia. Uno se la fa con le suore, con l’amante, oppure, oppure… (che tragedia!) con dei bambini. E che dire del superiore che invita il “prete bollente” ad andare a donne di nascosto?
    E’ forse cambiata la cultura clericale, che vede la sessualità con gli occhiali neri dei pagani gnostici e manichei? Lei sa meglio di me che i cristiani della prima ora considerano il matrimonio un male necessario. Per S. Ambrogio la donna è tentazione, per S. Gerolamo il marito che ama troppo la moglie commette adulterio. Quanti coniugi sono stati ammessi alla gloria del Bernini per aver esercitato in grado eroico le virtù proprie del matrimonio? Ma quali sono? La rinuncia, il sacrificio, la negazione del piacere? Ha mai meditato sul testo della teologa e madre C. Jacobelli, Risus Pascalis – Il fondamento teologico del piacere sessuale?
    Basta forse ammettere tra i docenti una zitella, inviare i seminaristi in vacanza o a fare apostolato domenicale? Un amico seminarista mi racconta: “Di ritorno dalle vacanze, 2005, corro dal padre spirituale. “Padre, ho provato simpatia per una ragazza”. “E’ una tentazione, il maligno in persona, fuggi, fuggi da lei. Prometti di non vederla mai più”. Trasformare la donna da sostegno, compagna dell’uomo (per “ordine di Dio”) in un pericolo, in una tentazione, in una rivale di Dio è proprio secondo il suo cuore? Non è come cancellare metà della nostra stessa umanità? I preti pedofili avranno la loro responsabilità personale, ma non saranno anche frutto di questa cultura misogina e manichea? Un’amica, saggia e attempata, mi racconta: “Il prete in predica ha inveito talmente contro il sesso, che l’ho aspettato all’uscita e gli ho spiattellato in faccia: “Scusi, padre: si ricordi che anche lei è nato da un amplesso coniugale, non dagli angeli!”.
    Non mancheranno i preti osservanti del celibato (si parla, forse, del 6/10 %). Ma si tratta di regola o di eccezione? Si è giunti a tale conquista mediante o nonostante il seminario? Sono stato nei monasteri buddisti in Cambogia, Sri Lanka, Tailandia e ho studiato la loro iniziazione alla vita celibataria. C’è da invidiare tanta serenità, che è il risultato di un metodo di auto-dominio con pratiche ascetiche e il controllo del pensiero attraverso quello della respirazione.
    Apprezzo troppo il celibato volontario per vederlo svilito ad una imposizione. Può essere mistificante sostenere che il celibato volontario non risolverebbe il problema, perché la pedofilia è una piaga, di cui non sono immuni nemmeno i padri di famiglia. Ma questi, almeno, non si dicono “rappresentanti di Dio”! Eliminiamo le anomalie educative; facciamo uomini concreti, calati nella realtà e così si potrà dire che non è colpa dell’istituzione. La pedofilia dei preti non è che un sintomo di un male sotterraneo. La gerarchia continuerà a colpire gli effetti, ignorando le radici del male? Non si addomestica il cuore, mettendolo in quarantena.
    La Commissione dei vescovi americani non ha riconosciuto che l’educazione del seminario può inclinare all’omosessualità, quando non la favorisce? Non c’è terreno migliore di quello esclusivamente maschile per innescare curiosità morbose, ricercare il “surrogato” in mancanza del “prodotto originale”. L’unico e insostituibile ambiente educativo è quello familiare e ogni altro rischia di essere contro natura (Cf Carta dellONU, 1989). Di fatto i seminari minori negli Usa, Canadà, Irlanda, Messico, ecc. sono stati chiusi. Per caso o proprio perché finalmente si ammette che non funzionano e, spesso, si innescano varie forme di omosessualità? Un’amica psicologa spiega: “In quei contesti si “ingenera” una omosessualità “situazionale”, legata cioè non ad una scelta omosessuale di fondo, ma all’impossibilità di accedere all’oggetto sessuale femminile, per cui lo sfogo della libido si riversa su un altro oggetto. Non potendo riversarsi su una donna, la pulsione sessuale viene dirottata su altri uomini, che sono gli unici oggetti sessuali disponibili. Per coloro che hanno un’inclinazione alla omosessualità, il seminario diventa l’ambiente “ideale” per esprimerla, con tutte le ovvie ripercussioni su quanti non hanno questo orientamento di fondo”.
    Di fronte all’ “11 settembre della Chiesa americana” si parla di innominabile tradimento di Cristo. Ma l’unico e solo “colpevole” è il prete pedofilo? Pedofili si nasce o si diventa? Se si diventa, che cosa vi ha contribuito? Non sarebbe stato opportuno convocare in Vaticano gli “indegni”, per sentire la loro versione e offrire al mondo le loro scuse? Prendersela con gli effetti non elimina le cause. Chi più e meglio di loro ci potrebbe dire che cosa ha fatto difetto nella loro educazione psico-affettiva, a che cosa attribuire i buchi neri della formazione? E cosa è successo nei primi anni del ministero? Che cosa i cristiani avrebbero potuto e dovuto fare per dare al prete non solo offerte ma anche sostegno umano?
    Forse il papa potrebbe convocare anche le vittime in piazza San Pietro e chiedere loro perdono insieme ai cardinali? Non creda che ce l’abbia con Tizio o Caio, che passano, ma con il sistema, che non passa e continua a immolare le sue/nostre vittime. Imparassimo ad ascoltarle, almeno!
    Distinti saluti,
    fausto marinetti
    PS. Perché non ripassiamo il n° 3 di Concilium del 2004? Non sono degli “anticlericali”, ma teologi/ghe, ricercatori seri che parlano, non a caso, di pedofilia clericale come di tradimento strutturale della fiducia.

  17. Un mio caro amico sacerdote, mio coetaneo, e perseguitato per tutta la vita per le sue idee pastorali troppo avanzate (tipo come si diceva una volta “Chiesa dei poveri”, nulla di legato al tema sessuale trattato qui) usa dire una battuta: «Se il matrimonio fosse conveniente, i preti non se sarebbero lasciato sfuggire».

Lascia un commento